di Cinzia Purromuto

Il corpo come strumento a cui delegare l'espressione di quel disagio che non può essere celato e difficilmente è comunicabile con le parole, il corpo come luogo ed espressione dell'angoscia... Le parole incomunicabili, che non trovano altro canale di espressione, si lasciano parlare e sono rese visibili a sé ed agli altri attraverso il proprio corpo". (Giuseppina Ustica, "Il gruppo omogeneo di psicoterapia analitica" in "Gruppi. Metodi e Strumenti").

 

Nella mia fantasia, leggendo i questionari che abbiamo finora ricevuto e gli interventi nel nostro ed in altri forum, mi immaginavo di scrivere qualcosa di realistico e che si potesse "toccare" come quello che i self injurers raccontano delle loro esperienze. Fare conoscere a chi ne è lontano questa "realtà" e lanciare un messaggio spero positivo a chi la conosce.

Comincerei dicendo che a tutti è capitato di avere delusioni da genitori, fidanzati, amici, provare emozioni così forti da non sapere come gestirle come la rabbia, vivere insuccessi, avere problemi che sembrano insormontabili,... Ma cosa c'è allora di diverso?

Quello che differenzia un individuo da un altro è il modo in cui ciascuno gestisce e reagisce a queste situazioni. I self injurers rivolgono tutte le tensioni su di sé e cercano sollievo nella "percussione" del proprio corpo. E quando parlo del corpo come contenitore delle proprie sofferenze non mi riferisco, infatti, solo ai colpi inferti con lamette, taglierini, ma anche a quei comportamenti volti da un lato a soddisfare bisogni fisiologici come il cibarsi e dall'altro alla privazione, in un secondo momento, di ciò che a questo corpo era stato concesso per permettergli di sopravvivere e svolgere le sue funzioni, come i disturbi del comportamento alimentare. Questi ultimi sono difatti spesso associati al SIB. In entrambi vi è quel senso di controllo che l'individuo si illude di avere su sé, e specificamente uno sul proprio corpo, l'altro sulle proprie emozioni e sulla loro gestione, senza sapere che in entrambi i casi l'indipendenza acquisita è solo un'illusione perché in effetti non si controlla nulla, ma ci si fa solo del male, senza affrontare e cercare di risolvere quelle che sono le difficoltà a monte. La motivazione ad infliggere dolore al proprio corpo potrebbe risiedere, quindi, nel tentativo di realizzare un controllo sulla sofferenza piuttosto che un sollievo da essa. Un tentativo di risolvere stati traumatici che non possono essere ricordati ed esistono come configurazioni presimboliche e inconsce. Tali comportamenti divengono dunque "organizzatori" del mondo interno (Philippe Jeammet) .

Il desiderio di controllo su di sé è legato al desiderio di indipendenza che probabilmente nasce dalla sensazione che chi dovrebbe "prendersi cura" di non lo fa, per cui la reazione più ovvia è quella di pensare "se tu non lo fai allora faccio da me". A tal proposito ricordo di avere letto che alcuni self-injurers dicono di avere cominciato a percuotere il loro corpo nella stanza accanto a quella dei genitori che litigavano o dal fatto che i genitori che sono a conoscenza della doppia vita dei figli preferiscono negare o ignorare l'accaduto. L'attenzione, la comunicazione senza tabù, sono essenziali per non favorire la chiusura e l'isolamento che portano a risolvere i "sovraccarichi" in comportamenti autolesionistici.

Emerge in modo molto chiaro il bisogno di comunicare e di essere ascoltati, per questo ipotizzo che l'arrivare a soluzioni così "solitarie" e "fai da te" potrebbe essere dovuto a carenza nelle capacità comunicative e nell'espressione delle emozioni, come chi ha iniziato ad autoferirsi in seguito ad abusi subiti, perché probabilmente al momento non è riuscito a dirlo o non è stato ascoltato.

Ritengo che queste soluzioni siano un non volere affrontare il problema, ma evitarlo cercando di alleviare soltanto la tensione attraverso un gesto conosciuto che in alcuni casi deve procurare "un dolore che almeno equivalga a quello sentito dentro di sé ".

Proviamo adesso ad individuare i sentimenti più comuni denunciati dai self-injurers: in cima alla lista metterei la solitudine, aumentata dell'avere una doppia vita tenuta segreta. L'assenza dello sguardo dell'altro è forse proprio uno dei motivi alla base di questa tendenza alla chiusura all'altro e al "fai da te" nella gestione delle emozioni sia positive che negative; al secondo, il vuoto interiore denunciato da alcuni che si percuotono per sentirsi vivi; poi, ancora il sentimento di sovraccarico emotivo intollerabile, per cui la vista del sangue che fluisce fuori dal corpo è paragonabile ad un "liberarsi", ad "un lasciare andare", ad un alleggerimento, dunque, del carico.

Un possibile spazio in cui potere avere un orecchio attento ed un aiuto nella esplicitazione ed elaborazione di vissuti, è quello della relazione terapeutica. Al suo interno, infatti, attraverso l'alleanza instaurata con lo psicoterapeuta diventa più facile elaborare quelle emozioni ingestibili da soli e che trovano sfogo nel comportamento autolesionista. L'esplicitazione e il riconoscimento delle difficoltà sono estremamente importanti per cominciare a non accentrare il peso di "tutte le colpe" su di sé, ma ha dare il giusto a chi lo merita migliorando le capacità di valutazione delle situazioni, la gestione delle emozioni, positive e negative, le capacità di relazione attraverso un miglioramento delle abilità comunicative.

Esistono servizi pubblici e privati a cui poter fare riferimento per trovare un orecchio attento all'ascolto ed un consiglio utile.

Bibliografia:

  • Jeammet P., Psicopatologia dell'adolescenza , Ed. Boria.
  • Lo Verso G., Di Maria F., Gruppi, metodi, e strumenti
  • Gabbard G.O.(2000), Psichiatria psicodinamica , Ed. Raffaello Cortina Editore.
  • Strong M. (1999), Un urlo rosso sangue, Ed. Frassinelli (tr. It. di "A bright red scream" di Marilee Strong, 1998)

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